autore: Valerio Caddeu

Suino di razza sarda, un modello sostenibile

Nella lingua sarda il maiale allevato in casa per il fabbisogno della famiglia, spesso unica fonte di proteine nobili nella dieta dei nostri antenati che non allevavano bestiame, ha un nome che coincide col sacrificio.

Dall’aggettivo latino occisorius, pronto da uccidere, al nome sardo ochisógliu, ochisólzu, ochisórgiu e simili nelle varianti locali, l’importanza del maiale nell’economia domestica rurale era tale non solo da identificare l’animale con la sua immolazione, ma da fare in modo che si consumasse con un rituale prestabilito, studiato affinché nulla andasse sprecato: il sangue, le interiora, le carni pregiate e i tagli meno nobili, le parti da consumare subito e quelle da trasformare e conservare.

Abbiamo una tradizione antichissima: il tanto decantato cerdo iberico da cui si ricava il prosciutto pata negra è allevato come in Sardegna si usa dal Neolitico, prima della costruzione dei nuraghi; ma il suino sardo insieme alla sua economia ha rischiato di scomparire, insidiato dalla peste suina e da razze estere più adatte all’allevamento intensivo e con dimensioni molto superiori; solo grazie ad alcuni allevatori caparbi ed evidentemente lungimiranti la razza sarda si è conservata.

Gianfranco Lecca è un allevatore custode del suino sardo, tra i pochi in Sardegna a non aver ceduto alle lusinghe delle razze da batteria, rosa, lunghi e mansueti, e soprattutto enormi. Lui continua la tradizione familiare, affacciato sul belvedere naturale di San Basilio, e alleva i maiali sardi, più piccoli, scuri e spettinati, anarchici e impetuosi.

Classe ‘55, ha mosso i primi passi nella suinicoltura seguendo le orme dei suoi antenati. Mentre passeggiamo tra gli ampi recinti che accolgono i suoi maiali, con una miriade di suinetti che ci guizzano tra le gambe, racconta di quando da bambino prima delle feste si avviava verso il Mercato di San Benedetto a Cagliari con il padre, a portare i maialetti, caricati nelle gerle sugli asinelli e sul cavallo. A quei tempi gli hanno insegnato i rudimenti dell’arte di cui ora è custode: il nonno era in grado di prevedere quale parte del bosco avrebbe prodotto le ghiande migliori. “Non ci credere quando ti dicono che il maiale mangia solo ghiande. E poi non gli piacciono tutte: gradisce quelle piccole della sughera, dolci, che somigliano alle nocciole, una varietà di quelle di roverella e pochissime del leccio. Dopo un po’ il maiale si stanca delle ghiande. Invece è ghiotto di bulbi, come quelli dello zafferano selvatico e dell’asfodelo, di anellidi e altri piccoli invertebrati che cerca nel primo sottosuolo.”

E’ consapevole di avere davanti animali intelligenti, ne parla con grande rispetto. “Con i maiali ho costruito casa, ho fatto studiare i miei figli; non sono ricco ma quello che ho lo devo ai miei animali” dice, indicandomi gli esemplari di cui va più fiero. Intuisco che ha separato i più anziani da quelli in fase di sviluppo, con i cuccioli che approfittano di ogni buco nelle recinzioni per scorrazzare liberi. “Tanto ogni madre riconosce i suoi, non c’è margine di errore”.

I magroni destinati ad essere trasformati sono separati dagli altri per consentire il cosiddetto finissaggio, l’ultima parte dell’accrescimento prima del sacrificio, non prima del secondo anno d’età. Tutto questo in mezzo alle colline della Trexenta, in una zona pedemontana che profuma di macchia mediterranea, mica di porcilaia.

La dieta è a base di grano, orzo, legumi e piselli, oltre alle prelibatezze naturali del territorio in cui pascolano. “Nelle stalle i maiali praticano il cannibalismo, qui non succede. Guardali: neanche un segno di morsi. Al chiuso impazzirebbero, ma è normale, anche l’uomo se lo confini tra quattro mura finisce per impazzire.” Da queste parti il benessere animale è una pratica quotidiana dalla notte dei tempi.

In paese, nella zona degli abbeveratoi, il locale di lavorazione sembra il laboratorio di un profumiere. Prosciutti, spalle, guanciali, pancette, lonze, rotoli di cotenna, testa in cassetta, sale, pepe e qualche spezia, come il finocchietto selvatico tostato e i chiodi di garofano. “Mi chiedono la salsiccia, ma guarda quanta carne rimane” dice, mostrandomi un piccolo recipiente con pochi ritagli. Il sacrificio è quasi proverbiale, nulla va sprecato. Chi sono i tuoi clienti? Chiedo, incuriosito dalla dimensione familiare dell’impresa opposta all’interesse di un colosso come Slow Food, che ne ha fatto Presidio. “Amatori, gourmet, ristoratori di fascia medio alta. D’estate vado al mercato rionale a Villasimius, grazie al passaparola i miei prodotti vanno a ruba. Mi piace avere il contatto coi clienti, raccontare il mio lavoro.” e me lo immagino, mentre racconta con trasporto le virtù dei suoi maiali e del suo territorio ai villeggianti.

Ora che la peste suina è stata eradicata e l’allevamento semi-brado sdoganato, lo sviluppo di un’economia rurale basata sulla razza suina sarda potrebbe coincidere con la salvaguardia del patrimonio culturale e paesaggistico sardo. Inoltre gli allevatori riuscirebbero a mantenere le caratteristiche proprie del prodotto, con esemplari di taglia inferiore alla media, ma cresciuti liberi e nutriti esclusivamente con i prodotti naturali delle campagne.

Anche un profano capisce che questo modello è sostenibile, non consente grandi numeri ma garantisce il massimo benessere animale, con conseguente produzione di carni di altissima qualità, sane, biologiche e intrise di profumi mediterranei.

Valerio Caddeu